Storia della batteria

IL TAMBURO

È da considerarsi uno strumento a percussione appartenente alla famiglia dei membranofoni: cavo e di forma tubolare, in esso il suono è prodotto, come sappiamo, percuotendo o raschiando una pelle tesa attraverso una delle due estremità del fusto.

L’origine dei tamburi che compongono il drumset è da ricercarsi nel campo dei tamburi a cornice. L’origine di essi si perde nella notte dei tempi; esiste materiale iconografico databile ad oltre 6000 anni fa che rappresenta uomini e donne mentre suonano questo tipo di strumento, soprattutto durante rituali o cerimonie religiose.

Anticamente esistevano (ma esistono ancora oggi) culture in cui il compito di suonare lo strumento era riservato esclusivamente alle donne.

In Mesopotamia, nell’Antico Egitto e nella Grecia Antica già era diffusissimo il suo uso e in India intorno al 1000 d.C. si suonavano strutture melodiche e ritmiche riprese oggi dai jazzisti.

LE ORIGINI DELLA BATTERIA

La batteria è quindi una combinazione di piatti e tamburi in un un’unica struttura. Ebbene, se si trattasse di una persona fisica, potremmo dire che l’atto di nascita viene comunemente collocato alla fine del XIX secolo. Fu infatti intorno al 1895 che un leggendario percussionista di New Orleans, Dee Dee Chandler, creò un rudimentale pedale in legno per colpire la grancassa. La geniale innovazione mise per la prima volta un unico esecutore in condizione di azionare da solo quegli strumenti a percussione che nelle bande venivano affidati a tre musicisti distinti: grancassa, rullante e piatti.

Un’altra leggenda riguardo all’origine della batteria rimanda, invece, a motivi meno poetici e più pratici; pare, infatti, che l’attuale batteria sia nata esclusivamente per problemi di spazio. Sembra che, sempre a New Orleans alla fine del secolo scorso, lungo le vie ci fossero bande composte da molti elementi che suonavano per strada, in corteo, ed ogni elemento dell’attuale batteria era suonato da una singola persona, sullo stile delle fanfare militari.

In seguito, le esibizioni si sarebbero spostate dalle strade ai locali, rendendo impossibile ospitare sul palco cinque o sei musicisti impegnati con le percussioni. La trovata geniale, quindi, fu di fondere in un’unica struttura cassa e rullante. Ad ogni modo, se non si è sicuri riguardo la “paternità” della batteria da attribuire a Chandler, pare non ci siano dubbi riguardo quella dell’invenzione del pedale per la cassa. A questa batteria primordiale, furono aggiunti in seguito i piatti, solitamente allo scopo di creare un suono acuto che si contrapponesse a quello grave dei tamburi.

MAMMA NEW ORLEANS

Le fonti storiche ci danno un’assoluta certezza: è New Orleans con la sua relativa area geografica ad essere la culla del jazz e, quindi, uno strumento così poco “accademico” come la batteria non poteva che svilupparsi per le strade, sviluppando una meticcia fusione di culture. I musicisti afroamericani, con le loro millenarie tradizioni percussive, incontrarono i tamburi militari europei e la loro tecnica già codificata. Ed è proprio alla storia del jazz che l’evoluzione di questo strumento – almeno sino agli anni sessanta – è stata indissolubilmente legata.

I primi batteristi si limitavano a svolgere una funzione metronomica, ossia di semplice marcatura dei tempi, con il rullante pronto a scandire le divisioni previste dal brano, la grancassa a segnare i quarti della misura e un piatto cinese sospeso usato per marcare gli accenti e sottolineare le frasi musicali.

Con l’avvento dello stile jazzistico, l’accompagnamento fornito dal batterista si fece sempre meno monotono e più reattivo nei confronti degli spunti ritmici suggeriti dai solisti; inoltre, si usava spesso smorzare il suono del piatto subito dopo averlo percosso e quasi tutti i pezzi si concludevano con questo accorgimento.

DA NEW ORLEANS A CHICAGO

La migrazione dei musicisti di New Orleans verso Chicago e New York, alla fine degli anni Venti, favorì un nuovo incontro di stili differenti. I batteristi di Chicago, per esempio, che erano soliti suonare sul piatto sospeso diverse figure ritmiche per l’ accompagnamento, avevano iniziato a utilizzare la grancassa insieme agli altri tamburi anche nei fills (lanci) e in piccoli assoli, oltre ad essere già in possesso di una buona tecnica con le spazzole.

Tra i maestri che seppero meglio fondere i due stili possiamo sicuramente ricordare Warren “Baby” Dodds e Arthur “Zutty” Singleton. Negli anni Trenta il “corredo” dei batteristi si arricchì ulteriormente, quantunque gli assoli continuassero ad essere eseguiti quasi esclusivamente sul rullante, con la cassa a scandire inesorabilmente tutti i quarti della battuta. Comparirono, infatti, a piacimento, piatti turchi, campane tubolari, timpani sinfonici, gong, triangoli e, accanto ai piatti cinesi, due o più tom-toms dotati di un sistema di tensione delle pelli a vite.
L’invenzione più innovativa riguardò però l’hi-hat o charleston: una coppia di piatti turchi che erano portati a contatto o separati da un pedale a molla azionato dal piede sinistro del batterista. Inizialmente era collocato a livello del suolo, ma, intorno al 1926, Vic Berton e Kaiser Marshall, utilizzando un’asta scorrevole, poterono collocare il charleston all’altezza del rullante e mettere a punto una tecnica esecutiva che venne ripresa e utilizzata soprattutto dai batteristi delle grandi orchestre.

E da allora, tralasciando le ovvie evoluzioni in ambito di qualità nei materiali utilizzati, la batteria non ha subìto sostanziali innovazioni. Certo, lo strumento col tempo si è arricchito di nuovi accessori e continua a farlo anno dopo anno, grazie anche a produttori e batteristi alla ricerca continua di suoni “alternativi” a quelli standard, mediante l’utilizzo di pad elettronici o espedienti più grezzi, come ad esempio coperte, piatti o qualsiasi altro materiale poggiato sulla pelle dei tamburi, per ottenere sonorità originali che dìano a un brano il quid necessario per distinguersi dal suono di batteria che noi tutti conosciamo. E che, nonostante tutto, resta ancora magnetico e carico di energia.